Pochi giorni fa sono stato a Matera, una città incantata,
favolosa, piena di magia e cultura.
Mentre percorrevo le stradine di questa città, mi sono
imbattuto in alcune chiese dalla architettura rarissima, le cosiddette chiese
rupestri.
Ho scoperte che queste chiese sono sviluppate in negativo,
nel senso che piuttosto che aggiungere elementi architettonici come la colonna,
l’arco, la trave e così via, come siamo abituati a vedere nella maggior parte
delle chiese, per le chiese rupestri invece viene tolto tutto ciò che non serve fino a dare vita e forma alla
colonna, all'arco ed alla trave.
In pratica si tratta di chiese scavate nelle grotte, dove lo
scavo partiva dall'alto verso il basso e si eliminava dalla grotta tutto ciò
che non serviva, lasciando solo gli elementi architettonici che servivano alla
chiesa.
In pratica la chiesa già esisteva e si trovava già nel luogo esatto in cui doveva
essere, bisognava solo togliere tutto quello che non serviva.
La scoperta di tale scelta architettonica mi ha stupito
tantissimo, ma c’era allo stesso tempo qualcosa che mi lasciava perplesso, mi
rendevo conto che questo principio non mi era nuovo, ero certo che quest’idea
l’avevo adottata e usata più volte ma non ne ricordavo il contesto.
Alla fine capii che erano addirittura due i contesti in cui
io usavo lo stesso principio.
Partiamo dal più semplice, l’associazione con il principio
zen di liberare la mente è abbastanza ovvio, si tratta di togliere dalla nostra
mente tutte le idee superflue, i concetti trappola, i pensieri inutili, che
creano una rete nella nostra mente e non permettono pertanto ai pensieri “puri”
di fluire liberamente, non permettono di avere una apertura ed una
predisposizione mentale.
In pratica la capacità di sapere accettare gli eventi della
nostra vita, qualsiasi essi siano, è già dentro di noi, si tratta solo di
togliere tutte quelle idee che non ci permettono di viviere serenamente, si
tratta di aprire la nostra mente, lasciando correre i nostri pensieri.
Seconda analogia.
Siamo abituati a pensare che, durante un combattimento
qualunque o durante la pratica di un arte marziale, l’attacco o meglio ancora
il contrattacco, debba essere necessiariamente un “colpo” da sferrare all’altra
persona.
Ad onor del vero, spesso è così, ma non sempre, almeno per
me.
Sto studiano ultimamente una tipologia di allenamento, molto
orientata alle sensazioni, cerco, attraverso un contatto con il partner, di
capire dove si concentra la sua forza, e di conseguenza cerco di sfruttare
questa sensazione per portarlo in una situazione di squilibrio, senza mai
perdere il contatto.
Si arriva così a creare una situazione di stallo, una
situazione di equilibrio in cui Uke e Tori formano una struttura unica, ma
mentre Tori sarebbe in equilibrio anche da solo, Uke non ha un suo equlibrio, e
lo trova poggiandosi sul punto di contatto che c’è tra i due, caricando tutto
il suo peso su questo punto di contatto, ma per lui tale contatto è passivo,
non ne è padrone, ma schiavo, in quanto è l’unica cosa che lo separa dalla
perdita totale dell’equilibrio.
Per Tori invece, che è in perfetto equilibrio, tale punto di
contatto è attivo, ne è padrone, perchè sarebbe in equilibrio con o senza quel
contatto, ed ecco che gli basta “togliere” qualcosa per finire il suo
contrattacco, la sua tecnica.
"Non è tanto importante cosa mettiamo o cosa togliamo, quello che conta di più è ciò che lasciamo..."
Nessun commento:
Posta un commento